LA POLITICA MONETARIA DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA

L’ANALISI DI GIANFRANCO POLILLO

Siamo ad una svolta?

Ad un giro di boa destinato a diradare la nebbia dell’incertezza?

Ad un cambiamento in grado di alimentare un pizzico di ottimismo?

Gli indizi sono rilevanti.

La maggior parte degli Organismi internazionali – dall’Fmi alla Commissione europea – che prevedono una recessione sempre più leggera per l’anno in corso. Al punto di trasformarsi in un breve rallentamento, per poi recuperare rapidamente l’anno successivo. Il prezzo del gas per megawattora che, sul mercato di Amsterdam, crolla a 48 euro. Solo la scorsa estate il relativo picco aveva superato i 380 euro. L’inflazione, infine, che dà segni di rallentamento.

Insomma, l’orizzonte appare meno buio. Se non vi fossero i massacri compiuti dai russi in Ucraina e le provocazioni contro l’Occidente (le navi nel Baltico con i loro carichi nucleari e il dislocamento di ingenti forze armate ai confini di quel martoriato Paese) sarebbe decisamente migliore. Ma Putin, nella sua disperata solitudine, sembra disposto a tutto, pur di non ammainare il vessillo della conquista territoriale. Lo dimostra l’andamento del prezzi dell’oro sui mercati internazionali. Dall’inizio della “missione militare speciale” il corso del metallo giallo è rimasto più o meno costante, con piccole oscillazioni congiunturali.

La stranezza è evidente. L’inflazione monta, ma il prezzo di un bene rifugio per l’eccellenza, come l’oro appunto, rimane quasi costante. Nei mesi precedenti l’invasione, quando l’economia mondiale stava ancora leccandosi le ferite della pandemia da Covid-19, era aumentato d’un sol balzo di oltre il 30 per cento. Ma se i prezzi rimangono relativamente stabili, questo avviene a causa di una relativa prevalenza dell’offerta, in grado di compensare la maggior domanda, dovuta a motivi cautelativi. Ed ecco allora scoprire l’arcano. A vendere è soprattutto la Russia di Putin (grande produttrice del metallo nelle miniere dislocate soprattutto in Siberia, penalizzata dalle sanzioni e dalla caduta dei prezzi dei prodotti petroliferi) per sostenere il costo della guerra.

Comunque sia, se le cose non peggioreranno a causa dell’imponderabile, forse gran parte del peggio è alle nostre spalle. Solo qualche giorno fa, un’anticipazione l’aveva data Fabio Panetta, ex Banca d’Italia e Bce, “L’inflazione energetica – aveva fatto osservare – è rallentata più del previsto a dicembre. Di conseguenza, anche l’inflazione headline sta diminuendo: a gennaio era ben al di sotto di quanto previsto a dicembre, trainata dalla componente energetica. Se il calo dei prezzi dell’energia continuerà, l’inflazione complessiva potrebbe scendere sotto il 3% verso la fine dell’anno.”

Se questo è lo scenario, due le conseguenze. Attenti a “non guidare a fari spenti”: invito rivolto alla stessa Bce, o meglio ai falchi del board, che vorrebbero seguire con maggior sollecitudine le orme della Fed americana. La politica monetaria non può prescindere dalle reali situazioni del mercato. Quindi prudenza nel rialzo dei tassi di interesse. Può andar bene la decisione di marzo (50 punti base in più) ma poi “wait”. Fermiamoci un attimo prima di andare avanti, ad occhi chiusi, lungo quella strada piena di incognite.

La seconda conseguenza è tutta interna. Finora i salari hanno subito una piena decurtazione. Non è giusto che tutto si scarichi sulla componente più debole – i lavoratori – della società italiana. Specie in una circostanza segnata dal prevalere di enormi profitti tra gli addetti alla produzione, commercializzazione e distribuzione dei prodotti energetici. Meglio, anche in questo caso, anticipare. Evitare cioè che siano, in seguito, le lotti sociali a ristabilire un minimo di decenza. Perché il riequilibrio, con ogni probabilità, sarebbe ben più costoso e meno performante da un punto di vista politico generale.

Sono quindi queste alcune delle idee che agitano la mente di chi è chiamato a decidere. Ma su tutte domina, come in un riflesso condizionato, il rapporto con la Fed americana. E il timore che, allontanandosi da un comune sentiero le cose non potrebbero che peggiorare. Come, del resto, era avvenuto nei mesi passati: quando l’euro si era fortemente svalutato nei confronti del dollaro. Preoccupazioni forse eccessive. La congiuntura negli States è profondamente diversa rispetto a quella europea, come sottolineato dallo stesso governatore Ignazio Visco.

La prima differenza che balza agli occhi è la maggiore intensità dell’intervento pubblico nell’economia. Negli anni 2020-21 il debito pubblico americano era aumentato di 25 punti, raggiungendo il 130 per cento del Pil. Nell’area dell’euro, la crescita era stata pari alla metà. Unica eccezione l’Italia, dove il debito pubblico, grazie alle politiche del duo Conte-Gualtieri, era aumentato di oltre 20 punti. Una deriva senza precedenti, destinata a diventare esplosiva se il governo non fosse intervenuto nel limitare i danni del “bonus edilizio”, sollevando le proteste degli stessi autori del precedente disastro.

La seconda differenza riguarda la dinamica del reddito delle famiglie, cresciuto ad un ritmo ben più elevato. Al punto da alimentare, oltre Atlantico, una crescita dei consumi di beni durevoli superiore al 30 per cento. Una congiuntura più che brillante che ha portato ad un crescente surriscaldamento del mercato del lavoro. Negli Usa, secondo uno studio recente del Fmi, il numero dei posti di lavoro vacanti è ben maggiore rispetto all’offerta di lavoro. Essendoli tasso di disoccupazione fermo ad un 3 per cento. Uno dei livelli più bassi dell’intero dopoguerra. Le carenze maggiori si registrano nel comparto dei servizi ad alta intensità di mano d’opera, come nel caso della ristorazione, dando luogo a forme di rincorsa salariale, che rischiano di alimentare la spirale prezzi – salari. Situazione ben diversa in Europa: dove il tasso di disoccupazione scende, ma con minore intensità.

C’è infine la diversa situazione del campo energetico. In principio gli USA erano stati favoriti da una dinamica dei prezzi, comunque in rialzo, ma più contenuti rispetto a quelli europei. Oggi quel differenziale, grazie alla caduta del prezzo del gas, si è notevolmente ridotto. Per cui la spinta proveniente da questo settore, nell’alimentare la spirale dell’inflazione si è progressivamente ridotta, merito anche di un contenimento dei relativi consumi. Scelta che si è dimostrata vincente, come nel caso delle accise, nonostante le proteste di un’opposizione senza idee: pronta a cavalcare ogni forma di antagonismo.

Sono quindi questi gli elementi che spingono per una maggiore prudenza. Tra il fare troppo e il fare troppo poco, il pendolo spinge verso questa seconda soluzione. Sempre che l’ortodossia – il nemico più subdolo delle scelte razionali – non prenda il sopravvento.

Articolo pubblicato sulla rivista “Formiche.net”

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