CONFLITTO MEDIO ORIENTE: IL VORTICE DI UN TEMPO SCOMPOSTO

LA LIBERTA’ DELL’OCCIDENTE SI DIFENDE SOTTO LE MURA DI GERUSALEMME (UGO LA MALFA)

Con piacere pubblichiamo la lunga ed interessante riflessione dell’amica Paola Bergamo sui drammatici eventi di questi giorni che hanno infiammato il Medio Oriente.

IL VORTICE DI UN TEMPO SCOMPOSTO

Il fenomeno del terrorismo è sempre più preoccupante perché le dimensioni sono esorbitanti.
Non si tratta più solo di qualche “lupo solitario” o di piccoli gruppi esaltati, ma di vere e proprie milizie organizzate capaci di attacchi imprevedibili per intensità e modalità.  Sono spesso sostenuti da stati canaglia.
Il terrorismo, allora, si trasforma in un’arma temibile contro cui sembrano inefficaci gli arsenali sofisticati e tecnologici degli eserciti regolari. La lezione dell’Afghanistan è piuttosto lampante.
Forse l’unica vera contro misura è l’attenta, accurata e insostituibile attività di Intelligence che sappia non solo raccogliere a analizzare l’enorme quantità di dati in circolazione, ma li sappia incrociare, sintetizzare sino ad azzeccare la previsione e organizzare per tempo il sistema di contromisure atte a impedire il possibile realizzarsi dell’evento.

Il terrorismo semina e si nutre d’odio.
La strategia del terrore non finisce nell’ attacco devastante. Lo scopo è che ne resti  un’ eco nel nostro profondo, nella psiche delle persone che si amplifica attraverso una feroce e sapiente  campagna di comunicazione-disinformazione che inizia dalla rivendicazione dell’atto, alla diffusione cruda delle immagini delle atrocità commesse, dello stato in cui riversano e sono trattenuti gli ostaggi, proprio come in queste ore, dove su Media e Social  scorrono video come quello della giovane israeliana abusata e gettata via come una cosa rotta, o dei bimbi e neonati, strappati alle loro madri, cullati dai loro stessi rapitori con indosso una divisa che trasuda del sangue di innocenti.

Dopo un attacco terroristico la società civile è smarrita. All’orrore del primo momento, prevale la necessità di una adeguata risposta per eradicare la fonte del male.
Così è accaduto dopo l’11 Settembre 2001 e così è necessario sia per il Sabato del 7 ottobre 2023. Israele ha iniziato a reagire e ha intimato siano evacuati i civili dalla Striscia di Gaza.
Estirpare, eradicare l’organizzazione del terrore non significa però  eliminare le cause d’odio e rancore, base  per trovare una via di convivenza tra Israeliani e Palestinesi.
C’è l’opzione dei due Stati che era sembrata vicina dopo la stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat , sotto gli occhi di Bill Clinton nel giardino della Casa Bianca, per la firma degli accordi di Oslo. Ma poi accadde che Rabin, premio Nobel per la Pace, fu assassinato. Era il 1995, e fu per mano di un estremista ebreo di destra. Nel 2014 morì anche Arafat, anch’egli insignito dello stesso Nobel per la Pace e le circostanze della sua morte sono rimaste anche incerte.
E c’è chi pensa a una soluzione modello Cantoni, proprio come la Svizzera.

A tutti noi piacerebbe parlare di Pace ma ci troviamo innanzi a un attacco di proporzioni gigantesche: sono 1200 i  morti.
Al momento, quindi, serve una risposta esemplare a questa ondata di violenza perché in pericolo è  la sopravvivenza di Israele complice la percezione che si è diffusa di una sua insospettabile fragilità. La Comunità Internazionale deve stringersi attorno a Israele che non è soltanto uno Stato aggredito, ma è simbolo di quel mondo di sofferenza, di libertà e valori propri della tradizione ebraica che l’accomunano all’Occidente.
Ugo La Malfa, diceva che “La Libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme” e in un certo senso è proprio così.

Ho molto pensato a Israele il “Ritornante”.
In mente mi sovviene che vi è “tornato” portando l’idea del Kibbutz della prima ora che in sé contiene l’idea socialista di giustizia e condivisione. Vi è tornato stretto in un destino di Stato obbligato ad allenare quotidianamente alla difesa armata il proprio popolo, donne e uomini, costretti a uno stato di allerta permanente, in cui la garanzia dell’uno sta nella capacità dell’altro di far da sentinella, perché il “ritorno”, un risarcimento esistenziale, non è mai stato accettato in quella terra dove si incrociano tante culture e le tre più grandi religioni monoteiste.
Ecco allora il paradosso per il quale quella terra, Santa per i Cristiani, Sacra ad Ebrei e Mussulmani, gronda di una inarrestabile scia di violenza.
Alla storia si aggiunge la memoria della distruzione dei due Templi di Salomone, delle tante persecuzioni e diaspore, dell’Olocausto  e degli ultimi 75 anni vissuti nella continua necessità di difesa . Ma gli Ebrei hanno sulle spalle più di 2000 anni di allenamento alla sofferenza.

L’immagine dell’Israele della prima ora, con l’operosità della vita nel Kibbutz, sempre sospesa tra normalità e guerra, è diversa dall’Israele dai modernissimi grattacieli, boutique di lusso e splendide zone di villeggiatura. Penso alle accoglienti acque trasparenti di Eilat, l’antica Ezion Geber che ai tempi del Regno di Salomone era porto famoso per il commercio con la Penisola Arabica e il Corno d’Africa, oggi ambita meta per vacanze.
Penso alle spiagge e ai divertimenti di una allegra Tel Aviv che la pubblicità promuove in tutto il mondo e che il New York Times ha definito “Capitale mediterranea del divertimento”. Una metropoli vivace dalla bella architettura Bauhaus riconosciuta pure dall’Unesco, in cui l’ottima cucina si mescola alla vita notturna e le belle spiagge la rendono meta gettonata.
E’ una immagine in cui è evidente che se l’evoluzione in senso capitalistico della società ha portato con sé tanto benessere, probabilmente ha prodotto anche un certo qual rilassamento, distrazione, e voglia di normalità, come del resto accade in tutto l’Occidente. Ma è evidente che Israele è uno Stato cui non è concesso abbassare la guardia, tanto più che a meno di 100 chilometri dalle luci di Tel Aviv ci stanno i Palestinesi di Gaza che vivono in una situazione difficilissima voluta da Hamas e controllata da Hamas.

Dal punto di vista demografico Israele ha le sue peculiarità: il 73% è costituito da ebrei israeliani, il 21% sono arabi israeliani e poi c’è un 5% un mix di altri gruppi.
Il mondo ebraico israeliano non è un mondo monolitico: ha in sé una varietà di sfumature che vanno dall’ateismo, all’agnosticismo, a quella del credente più o meno osservante, fino al mondo degli ortodossi e ultraortodossi che vivono immersi nella religione. Ma sono tanti anche gli ebrei laici che non si riconoscono nell’idea di uno Stato religioso. Così anche all’osservatore esterno non sfuggono le frizioni interne fonte di instabilità politica.
Alcuni osservatori, ad esempio Limes di Marzo di quest’anno, hanno sottolineato la difficoltà di trovare equilibri di politica interna legati alla figura divisiva del leader di destra Netanyahu. Israele è un “mosaico” che attraversa una crisi di identità tal da chiedersi a chi realmente appartenga lo Stato Ebraico e se si possa azzardare vi sia un “Israele contro Israele”, come ha osservato Caracciolo, dando proprio questo titolo al volume, quasi che il pericolo risieda all’ interno non meno che all’esterno.
A ciò si aggiungano i grandi malumori per la riforma della Giustizia. Sono elementi che lasciano  ipotizzare vi sia stata una distrazione verso quel  nemico che, nel frattempo, si allenava e si preparava all’attacco.

Quel rave party  a ridosso della striscia di Gaza, passerà alla storia per essersi trasformato in tomba per molti giovani trucidati e calvario per i rapiti.  Se testimonia un desiderio di “normalità”  è pure emblema delle tante cose che non hanno funzionato mostrando una insospettabile fragilità.
Dell’accaduto il primo responsabile è certo chi governa perché ha il dovere di provvedere anche a  prevedere i pericoli. Il nemico è stato sottovalutato ma Hamas, nel proprio Statuto, all’art. 13, si pone come obbiettivo di spazzare via dalla faccia della terra lo Stato di Israele.

In questi giorni, a livello nazionale ed internazionale si susseguono manifestazioni di solidarietà. Ma ci sono molti distinguo. Se la mia città, Venezia, ha aderito subito a “Stand with Israel” esponendo in Canal Grande, dalla finestra di Cà Farsetti, accanto al fiero gonfalone di San Marco, la bandiera di Israele, viceversa a Padova, che da noi dista pochi chilometri, nelle piazze sventolano le bandiere pro Palestina, cosa che in Francia invece è stata vietata. In Germania tornano le scritte antisemite.
Ora se è vero che esiste la questione Israelo-Palestinese, far sventolare proprio dopo un atroce attentato le bandiere palestinesi, non significa affatto agevolare un percorso di pace perché più che altro appare un endorsement ad Hamas che nel frattempo, insieme ad altri gruppi terroristici che inneggiano alla Jihad, ha invitato a eliminare nel mondo il più alto numero di ebrei, forse risvegliando pure le così dette cellule dormienti. A parte il malessere di un “continuum” della Storia che ritorna con le sue storture e brutture, è più che evidente che tale iniziativa risponde anch’essa alla strategia del terrore e che i paesi occidentali hanno alzato, prudentemente, il livello di guardia come accadde dopo l’11 Settembre.

Ai nostri giovani, che hanno certo diritto di manifestare i loro convincimenti, consiglio di non dimenticare che sotto i colpi di Hamas, sono caduti molti loro coetanei che volevano semplicemente divertirsi e che gli assalitori hanno sfruttato il tempo di Moadim e di Shabbat, quando tutto si ferma nel mondo ebraico (anche quello così detto “laico”), utilizzando droni, “tappeti volanti”, bulldozer e motociclette guidate da armigeri che hanno massacrato, violentato, trucidato e rapito. Non sono stati risparmiati donne, vecchi e bambini. Allora questo è tempo di lutto, di riflessione e di comprensione.
Preoccupa che nelle Università anche Italiane e Americane ci siano manifestazioni che non sappiano distinguere tra un atto da condannare e un problema, quello Israelo-Palesinese da affrontare. Perché l’atto terroristico è ascrivibile all’estremismo che mai porta ad un percorso di Pace.

Per cercare di capire “loStatodellecose”, dobbiamo ricordare che Israele non è solo uno Stato ma rappresenta, per gli Ebrei di tutto il mondo, un’assicurazione sulla vita specie dopo la Shoah del secolo scorso. Questo è quello che ha cercato di spiegarmi, con maestria e pazienza, un amico romano, aggiungendo che per i non ebrei è molto difficile entrare nel loro stato psicologico, specie dopo l’Olocausto. Pur non essendo ebrea, sono convinta che è così e che dobbiamo tutti sforzarci di aiutare a comprendere le ragioni degli uni e gli altri e distinguere come si comportano gli uni e gli altri. Ad esempio i primi ostaggi di Hamas sono gli stessi Palestinesi di Gaza nelle mani del radicalismo.

Non è qui possibile ripercorrere tutta la Storia di Israele.
La regione in cui è situata ha visto il dominio di numerose civiltà: cananei, egiziani, israeliti, filistei, assiri, babilonesi, romani, bizantini, arabi, crociati, ottomani. Sono passati 75 anni da quel 1948 in cui fu proclamato lo Stato.
Se Theodor Herzl, fondatore del Sionismo, indicava la Palestina “una terra senza popolo, e gli ebrei un popolo senza terra”, Simon Peres riconobbe che, no, quella terra in verità non era disabitata e che bisognava trovare una soluzione alla questione Palestinese. Ma una soluzione non è praticabile se una delle parti ha per obiettivo la distruzione dell’altra, e Hamas lo dichiara apertamente nel proprio Statuto.
Allora in un percorso di normalizzazione a mio avviso dovrebbero essere i Palestinesi e tutto il mondo Arabo, insieme all’Occidente ad aiutare Israele a eradicare il terrorismo. In questo trovo molto interessante quanto ha detto Yuval Noah Harari: “Usa, Ue, e Arabia Saudita fermino Hamas e lavorino insieme per la Pace!
Credo che questa possa essere una risposta per evitare di cadere nella trappola tesa da Hamas e di chi lo sostiene.

 

 

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